Tratto da una storia vera
Tutto era finito eppure non era affatto come l’avevo immaginato.
Erano ormai passati un anno e sei mesi dall’arrivo degli americani a Roma, arrivo che aveva finalmente ricongiunto le “due italie” in lotta – i fedeli del fascio contro i partigiani e gli incalzanti alleati- e che aveva quindi permesso alle famiglie di avere notizie dei parenti sparsi in altre regioni. Finalmente zia Teresa e mia mamma avevano potuto ricevere le rispettive lettere, e rassicurarsi: mia zia riguardo alla figlia, mia cugina Maria, che era qui con noi per studiare. Mia madre riguardo a come andavano le cose giù a Spinazzola, se c’era da mangiare, se era sicuro mandarci i figli per sottrarli alla fame e all’esasperazione. Perché, ancora in quell’estate e in quell’autunno del ’45, al sollievo - parziale - degli animi non era seguito il sollievo dei corpi: nonostante avessimo visto coi nostri occhi quel vero pane di un bianco scioccante arrivare con quei soldati che chiamavano liberatori, facevamo ancora a turno per andare con lo sgabello davanti al mercato di Piazza dell’Unità, in quelle ore che non sapevi se definire notte fonda o mattina presto, ad aspettare il debole torpore dell’alba che annunciava la fine del coprifuoco e poi l’apertura alle otto per poter ottenere quei tozzi fatti più con gesso che con farina che chiamavano pagnotte cirioline.
Fu principalmente per questo che mia madre decise che insieme a Maria che tornava giù in Puglia sarebbe andato mio fratello Tullio che, allora tredicenne, non poteva sopportare ancora a lungo la scarsità di risorse nella capitale e avrebbe quindi fatto la terza media al paesino agricolo da dove la famiglia di mamma proveniva, e lì avrebbe finalmente ricominciato a crescere in altezza e corporatura. Partirono quell’estate, dopo la fine dell’anno scolastico, a bordo di una camionetta di un possidente spinazzolese che tornava a casa dopo gli affari, i cui figli erano stati allievi di zia Teresa ai tempi della scuola elementare.
Ricordo che in quell’anno sentii molto la mancanza della mia cugina più grande, del nostro sostenerci e consolarci a vicenda, condividendo la fame, la sofferenza, l’amenorrea, tante paure e segrete domande che ci ponevamo in quegli anni del liceo e della guerra. Di lei ammiravo l’essere allo stesso tempo pervasa da determinazione e da un soffio di quella spensieratezza che mancava ai più, nei mesti tempi che correvano. Quando sedevamo nel giardino, in febbraio, a carpire il più flebile calore che il sole invernale poteva offrirci, io le dicevo “pensa che proprio in questo momento, da qualche parte su uno dei tanti fronti nel mondo, un nostro coetaneo sta morendo, la vita di un ragazzino è recisa, la sua giovinezza rubata, e lui non potrà mai realizzare i suoi sogni, invecchiare coi nipoti..” e cominciava a tremarmi la voce; allora lei posava la sua mano sempre tiepida sulla mia, la stringeva forte, e cercava di rassicurarmi anche se non era che poco più di ...
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