1. BOZZA ROMANZO

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    By Mannaiaallemine il 9 July 2013
     
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    Tratto da una storia vera



    Tutto era finito eppure non era affatto come l’avevo immaginato.
    Erano ormai passati un anno e sei mesi dall’arrivo degli americani a Roma, arrivo che aveva finalmente ricongiunto le “due italie” in lotta – i fedeli del fascio contro i partigiani e gli incalzanti alleati- e che aveva quindi permesso alle famiglie di avere notizie dei parenti sparsi in altre regioni. Finalmente zia Teresa e mia mamma avevano potuto ricevere le rispettive lettere, e rassicurarsi: mia zia riguardo alla figlia, mia cugina Maria, che era qui con noi per studiare. Mia madre riguardo a come andavano le cose giù a Spinazzola, se c’era da mangiare, se era sicuro mandarci i figli per sottrarli alla fame e all’esasperazione. Perché, ancora in quell’estate e in quell’autunno del ’45, al sollievo - parziale - degli animi non era seguito il sollievo dei corpi: nonostante avessimo visto coi nostri occhi quel vero pane di un bianco scioccante arrivare con quei soldati che chiamavano liberatori, facevamo ancora a turno per andare con lo sgabello davanti al mercato di Piazza dell’Unità, in quelle ore che non sapevi se definire notte fonda o mattina presto, ad aspettare il debole torpore dell’alba che annunciava la fine del coprifuoco e poi l’apertura alle otto per poter ottenere quei tozzi fatti più con gesso che con farina che chiamavano pagnotte cirioline.
    Fu principalmente per questo che mia madre decise che insieme a Maria che tornava giù in Puglia sarebbe andato mio fratello Tullio che, allora tredicenne, non poteva sopportare ancora a lungo la scarsità di risorse nella capitale e avrebbe quindi fatto la terza media al paesino agricolo da dove la famiglia di mamma proveniva, e lì avrebbe finalmente ricominciato a crescere in altezza e corporatura. Partirono quell’estate, dopo la fine dell’anno scolastico, a bordo di una camionetta di un possidente spinazzolese che tornava a casa dopo gli affari, i cui figli erano stati allievi di zia Teresa ai tempi della scuola elementare.
    Ricordo che in quell’anno sentii molto la mancanza della mia cugina più grande, del nostro sostenerci e consolarci a vicenda, condividendo la fame, la sofferenza, l’amenorrea, tante paure e segrete domande che ci ponevamo in quegli anni del liceo e della guerra. Di lei ammiravo l’essere allo stesso tempo pervasa da determinazione e da un soffio di quella spensieratezza che mancava ai più, nei mesti tempi che correvano. Quando sedevamo nel giardino, in febbraio, a carpire il più flebile calore che il sole invernale poteva offrirci, io le dicevo “pensa che proprio in questo momento, da qualche parte su uno dei tanti fronti nel mondo, un nostro coetaneo sta morendo, la vita di un ragazzino è recisa, la sua giovinezza rubata, e lui non potrà mai realizzare i suoi sogni, invecchiare coi nipoti..” e cominciava a tremarmi la voce; allora lei posava la sua mano sempre tiepida sulla mia, la stringeva forte, e cercava di rassicurarmi anche se non era che poco più di una bambina, preoccupata e stremata ogni santo giorno, che non sapeva come rassicurare se stessa. Senza che mi confidassi o mi pronunciassi in proposito, mia madre si accorse dello scudo di solitudine e tristezza che mi ero costruita intorno col passare del tempo, e convinse quindi mio padre ad accettare l’invito della zia Teresa che proponeva di mandare anche me a Spinazzola, almeno per le vacanze di Natale. Lui era un uomo pragmatico e tanto progressista nei confronti di scienza e tecnica quanto prudente ed all’antica riguardo alle donne della sua famiglia; un viaggio simile non era di certo conveniente. Il servizio ferroviario, che sotto Mussolini era stato obiettivamente impeccabile - a discapito di macchinisti e lavoratori del settore che per un’esigenza maniacale di puntualità erano stati costretti a condizioni lavorative infernali e a dure sanzioni anche quando il ritardo del treno non era colpa loro- era adesso totalmente confusionale, e viaggiare era diventato una scommessa. Il gioco, per me, valeva decisamente la candela; ma non era la mia opinione ad avere il maggior peso nell’affare. Tuttavia, malgrado lo scetticismo di papà, un’altra sua caratteristica era quella di essere orgoglioso del lavoro che faceva, e in quel momento questo lavoro era proprio quello di rimettere in sesto il prima possibile i binari devastati dai bombardamenti e i convogli ormai obsoleti, e il tutto praticamente senza risorse economiche. Se non ci credevamo noi, chi avrebbe potuto? Davanti a quest’argomentazione di mia madre la prudenza finì per soccombere all’orgoglio.
    Si decise così che avrei trascorso le sante feste lì dalla famiglia di mamma, in quel paesetto nella provincia di Barletta-Andria-Trani. Non avrei potuto chiedere un regalo migliore. Dopo il susseguirsi di stagioni sempre più vuote di prospettive di gioia o serenità,mi riscaldava il cuore il ricordo della pace, del silenzio, del sole pieno ed abbondante che avvolgeva quella campagna. Delle nostre scorribande per i colli verdissimi a rotolarci nel’erba, ad esplorare le vecchie masserie abbandonate sperando di scoprirci chissà quali segreti, a soccorrere animaletti feriti. Dopo anni di ogni sorta di alimenti di dubbia commestibilità, pregustavo con impazienza i taralli della zia che avrei sgranocchiato con la mia cara cugina di fronte al camino del pittoresco casale di pietra chiara dei Bartolini.
    Il Natale di quegli anni era stato un magro diversivo per scacciare l’immutabile senso di desolazione che aleggiava ogni giorno nelle nostre vite. Non avevamo davvero niente, la preparazione era diventato un gioco di noi ragazzi. L’attività che coinvolgeva tutta la famiglia era quella di salire a Monte Mario per fare legna e cicoria, come al solito tutto l’inverno, ma in quel caso ci caricavamo come muli per avere scorte sufficienti a non doverci tornare il 24 e 25 . Io una volta trovai sul giornale la ricetta per fare un panettone coi pochi ingredienti che la gente aveva a disposizione, ma visto che la farina che si vendeva era allungata con ogni tipo di polvere che potesse assomigliarvi quello che ottenni somigliava piuttosto a un’arma primitiva – quella del gesso nella farina era la peggiore croce alimentare con la fame che avevamo, ricordo ancora l’estasi di tutti noi quando mamma riuscì a recuperare non so come una vera pagnotta da Tolfa! Eleggevamo i miei fratelli come “comitato dei festeggiamenti”. Loro ci servivano con orgoglio le caldarroste che avevano imparato a cuocere, poi raccoglievano qualche pigna secca dal giardino, e con degli avanzi di vernice rinvenuti in un ripostiglio ne facevano delle decorazioni che trovavano il modo di appendere in giro per la casa e fuori dalla porta usando come ganci dei pezzetti di fil di ferro. Le candele erano un bene troppo prezioso per essere usate come ornamenti, ma c’era sempre un mozzicone destinato ad illuminare il presepio spartano che mia madre allestiva aiutata da Maria che cercava di aggiungere più particolari possibile per incuriosire e sorprendere i più piccoli. Nel tempo libero intagliava nel legno nuove figure, pastorelli o canestri di doni, affinché ogni anno ci fosse almeno una figura nuova; tagliava via il muschio da terra avendo cura di non strapparlo, in modo da farne soffici tappeti uniformi che erano la base e lo sfondo della rappresentazione. Uno dei miei piccoli piaceri preferiti, in quel frangente, era contemplare il tutto mentre calava la sera; adoravo carezzare quel quadrato verde e odoroso e osservare il variare delle ombre dei pupazzi quando la fiammella ondeggiava, mi dava un grande senso di pace. Lo scorso Natale senza la capacità di Maria di trovare la gaiezza nelle cose più insignificanti era stato uno strazio per me; non stavo più nella pelle all’idea di raggiungerla.
    Ora che si era optato per farmi partire, si poneva il problema della pianificazione del tragitto. Per quanto devota e rispettosa della famiglia e dei precetti di nostro Signore, come io sono sempre stata per indole, una diciottenne che si rispetti non poteva certo attraversare mezza penisola senza supervisione. Zia Teresa indicò alla sorella come persona fidata per accompagnarmi un insegnante di storia dell’8, tal Alberto Montoni, un originario di Gallipoli che lavorava a Spinazzola e che doveva tornarci dopo essere venuto a Roma per ritirare un certificato di abilitazione alla docenza superiore rilasciato dal Ministero dell’Istruzione- all’epoca questi tipi di documenti bisognava venirseli a prendere di persona nella capitale. In linea con gli impegni del signor Montoni, ci accordammo per partire la mattina di giovedì 22 dicembre dalla stazione Casilina poiché, anche se da lì già non passavano che i treni merci e i carri bestiame verso Napoli, uno di quei carri bestiame in arrivo da Lucca era l’unico mezzo disponibile per muoverci verso il sud a tre giorni da Natale e quasi senza soldi. Dovevamo considerarci fortunati: il carico doveva raggiungere proprio Barletta, entro venerdì a pranzo al più tardi. Quindi non saremmo stati costretti a cambiare vettura, un lusso affatto scontato. A Barletta avremmo trovato dei camion che ci avrebbero dato un passaggio a destinazione. Ero tanto contenta che non mi ero nemmeno resa conto che un po’ di paura l’avevo.
    Quel giovedì mattina l’aria della città sembrava essere passata per Trieste ed aver portato con sé la sua famosa Bora. Mia mamma lasciò me e l’inamidato impomatato dal collo Taurino e i modi servili che corrispondeva al nome di Alberto Montoni all’entrata della stazione già fremente di attività da sembrare un formicaio.
    Mi aspettavo del




    La littorina ALn556 residuo del “fascismo costruttore” avanzava tra scoppiettii e strani rumori di ferraglia che mi facevano restare sul chi vive, come se a tenermi inevitabilmente sveglia non bastassero gli spifferi gelati, gli scossoni e l’idea della presenza di quell’enigmatico giovane uomo al mio fianco.

    Edited by Mannaiaalleminne - 13/7/2013, 11:43
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