Replying to Feliz Navidad Cuba!

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  1. Posted 9/7/2013, 22:52
    grazue Crudelia! spero di stupirti ancora con le mie descrizioni, diffondi la parola a chi li vuole leggere (ma che non mi fotta alla SIAE :) ) a presto
  2. Posted 9/7/2013, 22:31
    CITAZIONE (Mannaiaallemine @ 9/7/2013, 18:55) 
    (racconto per ragazzi?)

    Odio i miei familiari. Ma quanto li odio.

    Lo so, l’ho già sentita, è scontato ma non lo pensi veramente ma pensa se non esistessero, per carità! Solo lo dico, non mi sembra di uscirmene con discorsi così astrusi, così incomprensibili o impossibili da condividere. Anzi! Non è proprio nello spirito de sto benedetto Santo Natale – e ben in linea co sta perenne crisi per di più – che idee come riscoperta dei veri valori, calore umano, dialogo, consumo critico dovrebbero essere abbracciate? Quand’è che la gente smetterà de girà cogli occhi foderati di prosciutto ed ammetterà che spendere e spandere un sudatissimo salario non è proprio il massimo della vita, che il sabato preferisce passarlo a giocare a pallone col figlio nel parco sotto casa?
    Vabbè, mò tanto è inutile parlare. Ci sono dentro fino al collo, e coi miei predicozzi sul valore dei rapporti interpersonali non mi sono certo data una mano. Mi tocca. Stampati un sorriso e ringrazia; natale ai Caraibi, il massimo secondo i più. Intrappolata in un film di Vanzina senza nemmeno l’intervallo per la pipì.
    Il viaggio è stato organizzato nei dettagli: papà ha rimediato un’offertona tutto – ma proprio tutto - compreso. Partenza ventidue dicembre ore otto e trenta da Fiumicino, scalo a Madrid Barajas, poi tutta ‘na tirata fino a la Habana José Martì che al solo pensiero di dieci ore sepolta viva in un aereo mi sento male. Giunti all’aeroporto, come da programma, c’è ad aspettarci l’amena navetta con condizionatore a meno quindici e salsa sparata al massimo sopportabile dal timpano umano alla soglia del dolore. Carica in blocco il gruppo e i bagagli per trasportarci direttamente al Sunrise Resort Varadero quattro stelle di comfort per le tue vacanze definite indimenticabili ma è uguale a un qualsiasi altro hotel di lusso-che-non-potrei-permettermi-in-un-paese-più-ricco davanti a una bella spiaggia esotica. Il planning prevede permanenza di una settimana al Resort che comprende visite guidate all’Avana e un giorno alle fabbriche di tabacco di Pinar del Rìo , animazione diurna e notturna (leggi: pisolino postprandiale impossibile), per non parlare del momento clou del soggiorno interpretato dall’organizzazione delle cerimonie natalizie tra la sera del ventiquattro e la giornata del venticinque, un estenuante e ciclopico programma di attività che tentavano di conciliare la tradizione natalizia nordamericana con i costumi caraibici. Coinvolgente ed inevitabile come un tornado, pacchiano in un modo che la mia mente non sarebbe stata capace di partorire. Come esperienza sociologica sarebbe non poco interessante, da tesi di dottorato quasi, ma allo spirito del ricercatore prevale in me il bisogno di non minare una già precaria sanità mentale partecipando di proposito ad un tale evento traumatico. Dal momento in cui vengo a conoscenza di tutto ciò comincio in segreto ad elaborare ipotesi e progetti per defilarmi al momento opportuno e lasciare ai miei cari il piacere di questa esperienza patinata senza sconvolgerli troppo, almeno per un paio di giorni. Ne va della mia salute.
    Dopo poco ci rendiamo conto del perché di un tale colpo di fortuna a livello di qualità-prezzo: il contesto caraibico da cartolina si trova per l’appunto sulle cartoline e solo su quelle. Il clima e l’umidità dell’aria ricordano i nostri temporali di fine estate, la spiaggia è semideserta. A parte gli impianti turistici qui non c’è nulla, l’Avana è a quaranta minuti di taxi e i pochi cubani che abbiamo visto sono tutti impiegati dall’albergo e da quest’ultimo istruiti su come comportarsi con i clienti, cioè soddisfare ogni richiesta non fare domande sorridere e guai a parlare di politica.
    Mia sorella minore non smette di lamentarsi e di ricordarci quanto ha speso per il costume nuovo e che figura farà con le amiche se torna bianca latte e che papà deve sganciare per il solarium. Mio padre si sente un po’ in colpa per aver agito piuttosto d’impulso ma non lo ammetterà mai e si nasconde dietro alla scusa che lavora come un matto per farci campare bene e potevate informarvi voi sul meteo e siete solo degli ingrati e voglio vedere quanto eravate contenti col solito cenone dai nonni. Mia madre ammonisce mio padre che ci andasse piano con quei sigari che ti fa male e costano un occhio e qua se non stiamo attenti ci spennano e perché non vuoi mai fare amicizia con le altre coppie che ci sono tanti italiani. Mio fratello ha fatto della PlayStationPortable una protesi naturale dei suoi arti superiori e cerca invano di corrompere il barista per farsi correggere col rhum la cocacola quando papà non guarda.
    Io li osservo e cospiro in silenzio.
    Ho sviluppato un piano non troppo male per evitare crisi isteriche parentali di fronte alla mia assenza. Per quel che ne sapranno i miei, secondo un’email appena ricevuta dal mio relatore proprio il ventiquattro dicembre, alla famosa Scuola Internazionale di Cinema e Televisione di San Antonio de los Baños si terrà una conferenza nientemeno che di Francis Ford Coppola, un’occasione imperdibile per me, a maggior ragione perché il mio prof mi ha espressamente chiesto di andarci e portargli informazioni sulla scuola e sull’evento. Non posso esimermi, capite, ne va del mio futuro eccetera. Doveri accademico-lavorativi: scusa incontestabile. Un classico che non muore mai.
    Certe volte mi applaudirei. Comunicare la notizia inserendola nella conversazione esattamente nel momento più propizio a dargli credibilità, tono stupito e concitato come sempre quando racconto qualcosa di interessante e inatteso , espressione tra il contrito il dispiaciuto e l’esaltato, linguaggio del corpo perfettamente in pendant con il ruolo. Da oscar. Salgo in camera a fare lo zaino.
    La mattina sgattaiolo via presto per evitare gli sguardi incattiviti e i “ma ci devi proprio andare! A Natale! Non sei tu quella che parla tanto dello stare insieme! E pericoloso da sola!”. Libera! Per prima cosa, un taxi verso la Habana, barrio del Vedado, stazione centrale dei pullman di linea via Azùl.
    Nonostante non abbiamo visitato che il centro della capitale, ho l’impressione che lì non troverò quello che cerco, vale a dire un quadretto cubano più vero, senza veli; non ho certo la presunzione di arrivare io fresca fresca da Roma a scoprire le verità assolute sul regime castrista, che finora nessuno c’è riuscito sul serio. Voglio solo vedere la gente, affannarmi i cinque sensi a tentare di carpire il cuore di una cultura e una società che senza dubbio è quella più lontana dalla nostra che finora ho avuto la possibilità di osservare.
    Centro Habana, la Habana Vieja e soprattutto Calle Obispo proprio non me li ero goduti. Visto da lì, sembrava che il paese fosse al servizio degli stranieri col portafogli gonfio- e quindi, rispetto a loro, di tutti gli stranieri. Dappertutto tracce della colonizzazione culturale nordamericana che comunque si fa strada introducendo icone ed usanze che fanno a pugni col contesto dell’isola. Che c’entrano gli addobbi di un obeso Santa Claus bardato di lana rossa coi negozietti religiosi che vendono simboli ed articoli per i seguaci della Santeria Afrocubana, amuleti di semi, erbe sacre e grosse conchiglie intarsiate e ornate di perline? E le cascate di pacchi regalo davanti ai bambini scalzi che ti chiedono un peso? Per non parlare di neve ed abeti, niente di più tipico nel paesaggio del caribe.
    Percorrere quella via è come dar da mangiare ai piccioni, che non capiscono quando non hai più nulla da offrire e continuano a seguirti in massa. Le briciole sono la tua macchina fotografica, i tuoi occhiali da sole, la tua indissimulabile aria da turista. Tutti sono gli unici dei quali ti puoi fidare, che possono davvero farti fare buoni affari, che possono trovarti tutto quello di cui hai bisogno. Il dispiacere maggiore me lo dava il fatto che in genere il loro approccio era tanto amichevole che non riuscivo mai a capire se alla fine avevano gradito la mia compagnia o no. Come una prostituzione di amicizia. La volta che ero riuscita a scambiare due parole con una habañera senza che i miei mi richiamassero all’ordine, sbiascicando uno spagnolo approssimativo davanti a un succo di canna da zucchero, ci ero rimasta male quando dopo una mezzoretta di chiacchiere e risate avevo capito che lei altro non voleva che farsi offrire da bere, farsi regalare qualche peso convertible e passare al prossimo ‘cliente’. Oggi evitiamo altri inganni emotivi.
    Il mio almendrone – cioè “mandorlone”, come i cubani chiamano per la loro forma pittoresca queste auto bellissime e un po’ scassate che sono le stesse di cinquant’anni fa – mi lascia all’entrata della stazione, la cui sala d’aspetto già mi mostra un assaggio di quello che vado cercando: gente che sembra vivere lì per la sicurezza con cui occupa lo spazio, chi dorme, chi gioca a dama, chi cambia il figlio, chi tira fuori tovaglietta piatti e un tupperware e imbandisce una tavola da pranzo sul dorso di una valigia, chi sembra avere con sé tutto ciò che ha mai posseduto nella vita. In generale si respira un clima allegro; ne deduco che, anche se la maggior parte dei cubani non “sente” granché il Natale come festa, è una vacanza pure per loro e quindi una scusa per divertirsi e stare con gli amici e la famiglia.
    Fedele al mio piano di evasione nella sua versione originale, dopo aver controllato il tabellone degli orari compro un biglietto per la meta del prossimo autobus in partenza: Artemisa, provincia de la Habana. Via. Vediamo che fine faccio.
    Dopo un paio d’ore di viaggio che ho trascorso sonnecchiando e cercando di capire di cosa parlavano gli altri passeggeri, scendo in uno spiazzo spoglio e mi faccio indicare la direzione per il centro del paese da un vecchietto rauco che mi vende una copia del Granma e mi rivolge un dolcissimo sorriso sdentato. M’incammino lungo la larga strada chiara e polverosa, evitando di scattare foto a mitraglietta, ma la mia estraneità al luogo salta subito all’occhio degli abitanti che mi guardano prima un po’ sgomenti, poi se ricambio lo sguardo mi sorridono e mi salutano, alcuni mi fanno cenno di andare a parlare con loro. Noto con piacere che sono quasi la sola turista; quello che volevo. Per le strade non manca l’attività, ma la colonizzazione natalizia qui è molto meno visibile, almeno per quanto riguarda gli addobbi. Si vede che fervono preparativi di festa, ma potrebbe essere San Patrizio come il compleanno del sindaco, se non fosse per il presepio di legno dipinto allestito nel cortile di una chiesetta che mi trovo davanti. La strada è occupata perlopiù da biciclette e motorini a pedali, dall’andatura incerta sotto il peso di carichi di merci sempre più voluminosi e tenuti insieme non so grazie a cosa, senza dubbio contraddicendo almeno un paio di leggi della fisica. Dalle finestre e dalle porte aperte delle case sviluppate in profondità più che in altezza si disperdono nell’aria profumi di forno, brace, spezie, fritto ed altri che non so riconoscere, insieme al son, alla trova, alla rumba e al reggaeton sputati fuori dalle radio col volume al massimo. Facendo attenzione a non farmi beccare mi avvicino all’entrata di una casetta blu e gialla addobbata con lucine colorate e vedo attraverso l’apertura al lato opposto dell’ampio ingresso un susseguirsi di corridoi, cortili, scale, orticelli e altre case; intravedo un paio di bambini che giocano. Ogni facciata di queste costruzioni basse sembra nascondere un piccolo mondo.
    Ora il tempo si sta guastando di nuovo, e come se non bastasse mi sento stanca e spossata. Il solito calo di pressione, la mia croce, cerco un Polase nello zaino, poi mi ricordo di averlo regalato a una mamma con due neonati alla stazione dei via Azùl. Merda, urge una farmacia o finisce che mi accascio come un burattino. C’è un’insegna poco più avanti sulla quale distinguo la parola farmacìa, mi sa che è una specie di centro amministrativo, ma mi sapranno dire dove devo andare. Entro e non so come riesco a chiedere se lì posso comprare un integratore di sali minerali, una donna mi spiega dove posso trovarlo, riesco sulla strada e dopo pochi metri mi ferma un’altra donna con una manicure discreta come la Piramide di Cheope ed un enorme sorriso che mi chiede cosa mi serviva e perché, poi dice di non preoccuparsi che ci pensa lei e mi fa cenno di seguirla. Rientriamo nel centro di prima dove mi guida attraverso corridoi che danno su uffici con le porte aperte, dai quali altre donne la salutano e si scambiano battute e domande. Non trovando l’integratore in un frigo nel quale tengono le scorte di medicinali, chiede a un’altra donna in camice bianco di scrivermi una ricetta, mi chiede dove alloggio e per quanto, se ho presente dove si trova la farmacia vicino al nostro Resort. Mentre lei telefona alla detta farmacia per sapere se hanno ciò che mi serve ed avvertire che una turista italiana verrà a ritirarlo, senza che io abbia avuto la possibilità di pronunciarmi in proposito, le donne degli altri uffici ci raggiungono e si stipano nella saletta, mi riempiono di domande con interesse e un tono subito confidenziale che mi mette a mio agio, mi offrono una sedia e del succo di mango. Ringrazio più volte, chiedo quanto devo e mi rispondono che è un piacere che mi fanno volentieri; insisto nel voler pagare, ma non se ne parla. Missis unghia shock, che scopro rispondere al nome di Mercedes, mi impone un invito a casa sua, dove vai che è già tardi e sei stanca ed è Navidad. Mi lascio convincere. Anche lei abita in una di quelle casette coloratissime e kitsch che, avevo supposto bene, davvero sembrano non finire mai, collegate dall’interno ad altre case come scatole cinesi. Sono come delle comunità, dove si condivide tutto e nessuno è mai lasciato solo, dove regna perennemente un’allegra confusione e si partecipa con sostegno alle gioie ed ai dolori di ogni membro. Mi spiegano che per loro gli amici e le famiglie allargate sono un’abitudine irrinunciabile, che ogni sera si fa a turno e si va tutti a cena a casa di qualcuno. Lo stare insieme è un culto, la fraternità un imperativo non scritto, le difficoltà si affrontano tutti insieme perché i cubani prendono molto seriamente l’idea che l’unione fa la forza. Nessun Artemiseño da me incontrato mostra la minima diffidenza nei miei confronti; il dogma della solidarietà si applica a tutti, nessuno escluso, specialmente se si tratta di una giovane simpatica come te – mi dice Mercedes col suo fare da mamma chioccia che è una carezza al cuore. Mi dimentico piacevolmente di tutto il resto all’infuori di quella casa della spensieratezza a tutte le età, dove mi accolgono con calore offrendomi orgogliosi le pietanze della festa e insegnandomi passi di salsa e dialetto cubano, spontanei come non avevo mai visto essere nessuno prima.
    Non sono riuscita a ringraziare Mercedes e famiglia come si meritavano, nel senso che non sono riuscita a trasmettere loro la consapevolezza del valore del regalo che mi hanno fatto. Non so se ne sono resi conto, ma per assurdo proprio loro che festeggiano il Natale senza stare troppo a riflettere sul suo significato mi hanno permesso di viverlo, per una volta, nel vero senso della parola. Voglio dire che quel ventiquattro dicembre ad Artemisa ho assistito letteralmente a dei natali, ad una nascita, o meglio forse alla rinascita di una certa fiducia che avevo da bambina ma che ho tendenza a perdere: la fiducia nella natura della specie umana, la certezza che sono spesso alcune sovrastrutture e non l’uomo in sé ad essere un ostacolo per se stesso. Ho avvertito nascere in me una nuova speranza. Per questo i grazie non basteranno mai.


    Questo racconto e' molto bello, sei riuscita a descrivere benissimo siA l atmosfera cubana ( nonostante io non la conosca) sia un bel sentimento di unita' e condivisione. Un bacio
  3. Posted 9/7/2013, 17:55
    (racconto per ragazzi?)

    Odio i miei familiari. Ma quanto li odio.

    Lo so, l’ho già sentita, è scontato ma non lo pensi veramente ma pensa se non esistessero, per carità! Solo lo dico, non mi sembra di uscirmene con discorsi così astrusi, così incomprensibili o impossibili da condividere. Anzi! Non è proprio nello spirito de sto benedetto Santo Natale – e ben in linea co sta perenne crisi per di più – che idee come riscoperta dei veri valori, calore umano, dialogo, consumo critico dovrebbero essere abbracciate? Quand’è che la gente smetterà de girà cogli occhi foderati di prosciutto ed ammetterà che spendere e spandere un sudatissimo salario non è proprio il massimo della vita, che il sabato preferisce passarlo a giocare a pallone col figlio nel parco sotto casa?
    Vabbè, mò tanto è inutile parlare. Ci sono dentro fino al collo, e coi miei predicozzi sul valore dei rapporti interpersonali non mi sono certo data una mano. Mi tocca. Stampati un sorriso e ringrazia; natale ai Caraibi, il massimo secondo i più. Intrappolata in un film di Vanzina senza nemmeno l’intervallo per la pipì.
    Il viaggio è stato organizzato nei dettagli: papà ha rimediato un’offertona tutto – ma proprio tutto - compreso. Partenza ventidue dicembre ore otto e trenta da Fiumicino, scalo a Madrid Barajas, poi tutta ‘na tirata fino a la Habana José Martì che al solo pensiero di dieci ore sepolta viva in un aereo mi sento male. Giunti all’aeroporto, come da programma, c’è ad aspettarci l’amena navetta con condizionatore a meno quindici e salsa sparata al massimo sopportabile dal timpano umano alla soglia del dolore. Carica in blocco il gruppo e i bagagli per trasportarci direttamente al Sunrise Resort Varadero quattro stelle di comfort per le tue vacanze definite indimenticabili ma è uguale a un qualsiasi altro hotel di lusso-che-non-potrei-permettermi-in-un-paese-più-ricco davanti a una bella spiaggia esotica. Il planning prevede permanenza di una settimana al Resort che comprende visite guidate all’Avana e un giorno alle fabbriche di tabacco di Pinar del Rìo , animazione diurna e notturna (leggi: pisolino postprandiale impossibile), per non parlare del momento clou del soggiorno interpretato dall’organizzazione delle cerimonie natalizie tra la sera del ventiquattro e la giornata del venticinque, un estenuante e ciclopico programma di attività che tentavano di conciliare la tradizione natalizia nordamericana con i costumi caraibici. Coinvolgente ed inevitabile come un tornado, pacchiano in un modo che la mia mente non sarebbe stata capace di partorire. Come esperienza sociologica sarebbe non poco interessante, da tesi di dottorato quasi, ma allo spirito del ricercatore prevale in me il bisogno di non minare una già precaria sanità mentale partecipando di proposito ad un tale evento traumatico. Dal momento in cui vengo a conoscenza di tutto ciò comincio in segreto ad elaborare ipotesi e progetti per defilarmi al momento opportuno e lasciare ai miei cari il piacere di questa esperienza patinata senza sconvolgerli troppo, almeno per un paio di giorni. Ne va della mia salute.
    Dopo poco ci rendiamo conto del perché di un tale colpo di fortuna a livello di qualità-prezzo: il contesto caraibico da cartolina si trova per l’appunto sulle cartoline e solo su quelle. Il clima e l’umidità dell’aria ricordano i nostri temporali di fine estate, la spiaggia è semideserta. A parte gli impianti turistici qui non c’è nulla, l’Avana è a quaranta minuti di taxi e i pochi cubani che abbiamo visto sono tutti impiegati dall’albergo e da quest’ultimo istruiti su come comportarsi con i clienti, cioè soddisfare ogni richiesta non fare domande sorridere e guai a parlare di politica.
    Mia sorella minore non smette di lamentarsi e di ricordarci quanto ha speso per il costume nuovo e che figura farà con le amiche se torna bianca latte e che papà deve sganciare per il solarium. Mio padre si sente un po’ in colpa per aver agito piuttosto d’impulso ma non lo ammetterà mai e si nasconde dietro alla scusa che lavora come un matto per farci campare bene e potevate informarvi voi sul meteo e siete solo degli ingrati e voglio vedere quanto eravate contenti col solito cenone dai nonni. Mia madre ammonisce mio padre che ci andasse piano con quei sigari che ti fa male e costano un occhio e qua se non stiamo attenti ci spennano e perché non vuoi mai fare amicizia con le altre coppie che ci sono tanti italiani. Mio fratello ha fatto della PlayStationPortable una protesi naturale dei suoi arti superiori e cerca invano di corrompere il barista per farsi correggere col rhum la cocacola quando papà non guarda.
    Io li osservo e cospiro in silenzio.
    Ho sviluppato un piano non troppo male per evitare crisi isteriche parentali di fronte alla mia assenza. Per quel che ne sapranno i miei, secondo un’email appena ricevuta dal mio relatore proprio il ventiquattro dicembre, alla famosa Scuola Internazionale di Cinema e Televisione di San Antonio de los Baños si terrà una conferenza nientemeno che di Francis Ford Coppola, un’occasione imperdibile per me, a maggior ragione perché il mio prof mi ha espressamente chiesto di andarci e portargli informazioni sulla scuola e sull’evento. Non posso esimermi, capite, ne va del mio futuro eccetera. Doveri accademico-lavorativi: scusa incontestabile. Un classico che non muore mai.
    Certe volte mi applaudirei. Comunicare la notizia inserendola nella conversazione esattamente nel momento più propizio a dargli credibilità, tono stupito e concitato come sempre quando racconto qualcosa di interessante e inatteso , espressione tra il contrito il dispiaciuto e l’esaltato, linguaggio del corpo perfettamente in pendant con il ruolo. Da oscar. Salgo in camera a fare lo zaino.
    La mattina sgattaiolo via presto per evitare gli sguardi incattiviti e i “ma ci devi proprio andare! A Natale! Non sei tu quella che parla tanto dello stare insieme! E pericoloso da sola!”. Libera! Per prima cosa, un taxi verso la Habana, barrio del Vedado, stazione centrale dei pullman di linea via Azùl.
    Nonostante non abbiamo visitato che il centro della capitale, ho l’impressione che lì non troverò quello che cerco, vale a dire un quadretto cubano più vero, senza veli; non ho certo la presunzione di arrivare io fresca fresca da Roma a scoprire le verità assolute sul regime castrista, che finora nessuno c’è riuscito sul serio. Voglio solo vedere la gente, affannarmi i cinque sensi a tentare di carpire il cuore di una cultura e una società che senza dubbio è quella più lontana dalla nostra che finora ho avuto la possibilità di osservare.
    Centro Habana, la Habana Vieja e soprattutto Calle Obispo proprio non me li ero goduti. Visto da lì, sembrava che il paese fosse al servizio degli stranieri col portafogli gonfio- e quindi, rispetto a loro, di tutti gli stranieri. Dappertutto tracce della colonizzazione culturale nordamericana che comunque si fa strada introducendo icone ed usanze che fanno a pugni col contesto dell’isola. Che c’entrano gli addobbi di un obeso Santa Claus bardato di lana rossa coi negozietti religiosi che vendono simboli ed articoli per i seguaci della Santeria Afrocubana, amuleti di semi, erbe sacre e grosse conchiglie intarsiate e ornate di perline? E le cascate di pacchi regalo davanti ai bambini scalzi che ti chiedono un peso? Per non parlare di neve ed abeti, niente di più tipico nel paesaggio del caribe.
    Percorrere quella via è come dar da mangiare ai piccioni, che non capiscono quando non hai più nulla da offrire e continuano a seguirti in massa. Le briciole sono la tua macchina fotografica, i tuoi occhiali da sole, la tua indissimulabile aria da turista. Tutti sono gli unici dei quali ti puoi fidare, che possono davvero farti fare buoni affari, che possono trovarti tutto quello di cui hai bisogno. Il dispiacere maggiore me lo dava il fatto che in genere il loro approccio era tanto amichevole che non riuscivo mai a capire se alla fine avevano gradito la mia compagnia o no. Come una prostituzione di amicizia. La volta che ero riuscita a scambiare due parole con una habañera senza che i miei mi richiamassero all’ordine, sbiascicando uno spagnolo approssimativo davanti a un succo di canna da zucchero, ci ero rimasta male quando dopo una mezzoretta di chiacchiere e risate avevo capito che lei altro non voleva che farsi offrire da bere, farsi regalare qualche peso convertible e passare al prossimo ‘cliente’. Oggi evitiamo altri inganni emotivi.
    Il mio almendrone – cioè “mandorlone”, come i cubani chiamano per la loro forma pittoresca queste auto bellissime e un po’ scassate che sono le stesse di cinquant’anni fa – mi lascia all’entrata della stazione, la cui sala d’aspetto già mi mostra un assaggio di quello che vado cercando: gente che sembra vivere lì per la sicurezza con cui occupa lo spazio, chi dorme, chi gioca a dama, chi cambia il figlio, chi tira fuori tovaglietta piatti e un tupperware e imbandisce una tavola da pranzo sul dorso di una valigia, chi sembra avere con sé tutto ciò che ha mai posseduto nella vita. In generale si respira un clima allegro; ne deduco che, anche se la maggior parte dei cubani non “sente” granché il Natale come festa, è una vacanza pure per loro e quindi una scusa per divertirsi e stare con gli amici e la famiglia.
    Fedele al mio piano di evasione nella sua versione originale, dopo aver controllato il tabellone degli orari compro un biglietto per la meta del prossimo autobus in partenza: Artemisa, provincia de la Habana. Via. Vediamo che fine faccio.
    Dopo un paio d’ore di viaggio che ho trascorso sonnecchiando e cercando di capire di cosa parlavano gli altri passeggeri, scendo in uno spiazzo spoglio e mi faccio indicare la direzione per il centro del paese da un vecchietto rauco che mi vende una copia del Granma e mi rivolge un dolcissimo sorriso sdentato. M’incammino lungo la larga strada chiara e polverosa, evitando di scattare foto a mitraglietta, ma la mia estraneità al luogo salta subito all’occhio degli abitanti che mi guardano prima un po’ sgomenti, poi se ricambio lo sguardo mi sorridono e mi salutano, alcuni mi fanno cenno di andare a parlare con loro. Noto con piacere che sono quasi la sola turista; quello che volevo. Per le strade non manca l’attività, ma la colonizzazione natalizia qui è molto meno visibile, almeno per quanto riguarda gli addobbi. Si vede che fervono preparativi di festa, ma potrebbe essere San Patrizio come il compleanno del sindaco, se non fosse per il presepio di legno dipinto allestito nel cortile di una chiesetta che mi trovo davanti. La strada è occupata perlopiù da biciclette e motorini a pedali, dall’andatura incerta sotto il peso di carichi di merci sempre più voluminosi e tenuti insieme non so grazie a cosa, senza dubbio contraddicendo almeno un paio di leggi della fisica. Dalle finestre e dalle porte aperte delle case sviluppate in profondità più che in altezza si disperdono nell’aria profumi di forno, brace, spezie, fritto ed altri che non so riconoscere, insieme al son, alla trova, alla rumba e al reggaeton sputati fuori dalle radio col volume al massimo. Facendo attenzione a non farmi beccare mi avvicino all’entrata di una casetta blu e gialla addobbata con lucine colorate e vedo attraverso l’apertura al lato opposto dell’ampio ingresso un susseguirsi di corridoi, cortili, scale, orticelli e altre case; intravedo un paio di bambini che giocano. Ogni facciata di queste costruzioni basse sembra nascondere un piccolo mondo.
    Ora il tempo si sta guastando di nuovo, e come se non bastasse mi sento stanca e spossata. Il solito calo di pressione, la mia croce, cerco un Polase nello zaino, poi mi ricordo di averlo regalato a una mamma con due neonati alla stazione dei via Azùl. Merda, urge una farmacia o finisce che mi accascio come un burattino. C’è un’insegna poco più avanti sulla quale distinguo la parola farmacìa, mi sa che è una specie di centro amministrativo, ma mi sapranno dire dove devo andare. Entro e non so come riesco a chiedere se lì posso comprare un integratore di sali minerali, una donna mi spiega dove posso trovarlo, riesco sulla strada e dopo pochi metri mi ferma un’altra donna con una manicure discreta come la Piramide di Cheope ed un enorme sorriso che mi chiede cosa mi serviva e perché, poi dice di non preoccuparsi che ci pensa lei e mi fa cenno di seguirla. Rientriamo nel centro di prima dove mi guida attraverso corridoi che danno su uffici con le porte aperte, dai quali altre donne la salutano e si scambiano battute e domande. Non trovando l’integratore in un frigo nel quale tengono le scorte di medicinali, chiede a un’altra donna in camice bianco di scrivermi una ricetta, mi chiede dove alloggio e per quanto, se ho presente dove si trova la farmacia vicino al nostro Resort. Mentre lei telefona alla detta farmacia per sapere se hanno ciò che mi serve ed avvertire che una turista italiana verrà a ritirarlo, senza che io abbia avuto la possibilità di pronunciarmi in proposito, le donne degli altri uffici ci raggiungono e si stipano nella saletta, mi riempiono di domande con interesse e un tono subito confidenziale che mi mette a mio agio, mi offrono una sedia e del succo di mango. Ringrazio più volte, chiedo quanto devo e mi rispondono che è un piacere che mi fanno volentieri; insisto nel voler pagare, ma non se ne parla. Missis unghia shock, che scopro rispondere al nome di Mercedes, mi impone un invito a casa sua, dove vai che è già tardi e sei stanca ed è Navidad. Mi lascio convincere. Anche lei abita in una di quelle casette coloratissime e kitsch che, avevo supposto bene, davvero sembrano non finire mai, collegate dall’interno ad altre case come scatole cinesi. Sono come delle comunità, dove si condivide tutto e nessuno è mai lasciato solo, dove regna perennemente un’allegra confusione e si partecipa con sostegno alle gioie ed ai dolori di ogni membro. Mi spiegano che per loro gli amici e le famiglie allargate sono un’abitudine irrinunciabile, che ogni sera si fa a turno e si va tutti a cena a casa di qualcuno. Lo stare insieme è un culto, la fraternità un imperativo non scritto, le difficoltà si affrontano tutti insieme perché i cubani prendono molto seriamente l’idea che l’unione fa la forza. Nessun Artemiseño da me incontrato mostra la minima diffidenza nei miei confronti; il dogma della solidarietà si applica a tutti, nessuno escluso, specialmente se si tratta di una giovane simpatica come te – mi dice Mercedes col suo fare da mamma chioccia che è una carezza al cuore. Mi dimentico piacevolmente di tutto il resto all’infuori di quella casa della spensieratezza a tutte le età, dove mi accolgono con calore offrendomi orgogliosi le pietanze della festa e insegnandomi passi di salsa e dialetto cubano, spontanei come non avevo mai visto essere nessuno prima.
    Non sono riuscita a ringraziare Mercedes e famiglia come si meritavano, nel senso che non sono riuscita a trasmettere loro la consapevolezza del valore del regalo che mi hanno fatto. Non so se ne sono resi conto, ma per assurdo proprio loro che festeggiano il Natale senza stare troppo a riflettere sul suo significato mi hanno permesso di viverlo, per una volta, nel vero senso della parola. Voglio dire che quel ventiquattro dicembre ad Artemisa ho assistito letteralmente a dei natali, ad una nascita, o meglio forse alla rinascita di una certa fiducia che avevo da bambina ma che ho tendenza a perdere: la fiducia nella natura della specie umana, la certezza che sono spesso alcune sovrastrutture e non l’uomo in sé ad essere un ostacolo per se stesso. Ho avvertito nascere in me una nuova speranza. Per questo i grazie non basteranno mai.

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